Gli amministratori delle società devono essere pagati?

Spesso il compenso degli amministratori di società non è deliberato dall’assemblea …

 

Gli amministratori delle società, che spesso operano per anni senza compenso, hanno diritto a essere remunerati per l’attività svolta?

La questione di solito non si pone nel corso del rapporto di amministrazione ma esplode (magari in modo … turbolento, quando i rapporti si sono interrotti bruscamente) quando l’amministratore cessa dalla carica.

Il Codice civile non contiene alcuna norma esplicita sul punto, limitandosi a stabilire (articolo 2364) che il compenso per l’attività amministrativa è fissato dallo statuto della società o deliberato  dall’assemblea.

Cosa succede – quindi – quando lo statuto tace e l’assemblea non provvede?

Per risolvere la questione occorre esaminare le decisioni che sono state adottate in proposito dai Tribunali e dalla Corti (da ultimo dalla Cassazione, con la sentenza n. 21172 del 23 luglio 2021), dato che nel nostro sistema la giurisprudenza ha grandissima importanza nella soluzione delle questioni legali.

Secondo l’orientamento costante di queste decisioni:

  • l’attività dell’amministratore di società di capitali si presume svolta a titolo oneroso;
  • quindi l’amministratore può ottenere la condanna della società al pagamento del compenso anche se lo statuto nulla stabilisce in proposito o se l’assemblea non ha deliberato sul compenso.

Richiamo una recente sentenza, che ha precisato quanto segue: “in tema di compenso degli amministratori di società di capitali, laddove manchi una disposizione dell’atto costitutivo e l’assemblea si rifiuti o ometta di stabilirlo o lo determini in misura inadeguata, l’amministratore è abilitato a richiederne al giudice la determinazione, anche in via equitativa, purché alleghi e provi la qualità e quantità delle prestazioni concretamente svolte” (Trib. Napoli, 30 luglio 2020, n. 5434).

Le decisioni sulla questione del compenso dell’amministratore richiamano l’articolo 1709 del codice civile, norma per la quale il mandato si presume oneroso e la misura del compenso, se non è stabilita dalle parti, è determinata in base “alle tariffe professionali o agli usi” o – in mancanza – è determinata dal Giudice.

Le decisioni precisano – però – che vi sono casi in cui è possibile ritenere che l’amministratore debba operare gratuitamente, dato che al rapporto tra l’amministratore e la società non si applica il principio costituzionale per il quale il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata e sufficiente (articolo 36 della Carta costituzionale).

La gratuità dell’incarico è affermata quando:

  • lo statuto della società stabilisce che l’attività amministrativa debba essere gratuita o condiziona il compenso al raggiungimento di utili o altri risultati economici, in concreto non realizzati;
  • l’amministratore abbia rinunciato esplicitamente al compenso;
  • l’amministratore abbia rinunciato implicitamente al compenso.

La questione della rinuncia implicita al compenso è molto delicata, dato che, ovviamente, nelle cause sul punto le società chiamate al pagamento cercano in tutti i modi di dimostrare che vi è stata questa rinuncia (di solito la difesa della società richiama il fatto che … il compenso non è mai stato chiesto).

In proposito la giurisprudenza precisa costantemente che il solo fatto che l’amministratore non chieda il pagamento di un compenso non equivale assolutamente a una rinuncia implicita a percepirlo.

Allo stesso modo, si precisa che non è indice della volontà di rinunciare al diritto il concorso dell’amministratore all’approvazione di bilanci che non prevedano il suo compenso (cfr. Trib. Milano 12.9.2012, in Società, 13, 254; Trib. Lucca 18.1.1989, in Società, 89, 702);

Perché possa ritenersi esistente una rinuncia implicita al compenso occorrono, invece, circostanze concrete tali da far ritenere che davvero l’amministratore abbia accettato di lavorare gratuitamente, come:

  • il fatto che l’amministratore – che era anche socio di maggioranza – non abbia mai sollecitato la discussione della questione del suo compenso in sede di assemblea;
  • il fatto che l’amministratore non abbia impugnato delibere dell’assemblea con le quali si negava l’attribuzione di un compenso (Trib. Roma 7 marzo 2014, n. 5400);
  • il fatto che l’amministratore abbia eseguito senza riserve una delibera assembleare che stabiliva un compenso infimo per la sua attività (Trib. Roma, 29 marzo 2016);

Va anche sottolineato che secondo la giurisprudenza non esiste un compenso “minimo” per gli amministratori delle società.

Questo vuol dire che:

  • gli amministratori possono accettare di essere retribuiti in modo oggettivamente inadeguato al lavoro svolto (si veda la sentenza della Cassazione del 17 marzo 1981, n. 1554)
  • quando gli amministratori agiscono per la condanna della società al pagamento del compenso essi devono dimostrare quantità e qualità del lavoro svolto e non possono limitarsi a richiamare il compenso deliberato in anni anteriori.

Un’ultima questione da considerare è quella della prescrizione del diritto al compenso (sul concetto v. la relativa voce di glossario).

Per costante orientamento della giurisprudenza questo diritto si estingue in cinque anni, applicandosi il termine di prescrizione “breve” (rispetto agli ordinari dieci anni) previsto in materia di società dall’articolo 2949 del codice civile (tra le tante sentenze richiamo Cass. n. 13629 del 2016; Cass. Sez. Lav. n. 13686 del 2016 o Cass. 25 settembre 2013, n. 21903).

 

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