L’accesso alla Giustizia Civile può, realisticamente e con un po’ cinismo, essere considerato un investimento redditizio. Ci sono, infatti, casi in cui l’avvio di una causa può essere considerato un vero e proprio investimento, effettuato per raggiungere un risultato economicamente vantaggioso (molti mormorano, per esempio, che le grandi imprese appaltatrici di lavori pubblici abbiano uffici dedicati solo a individuare ragioni per “fare causa” alla stazione appaltante per ottenere integrazioni al prezzo di aggiudicazione della gara).
Con questo post vorrei avviare la riflessione sui tanti diritti poco conosciuti o dimenticati che, se valorizzati, potrebbero essere considerati un vero e proprio attivo dell’impresa.
Un primo diritto che pochi cittadini e poche imprese esercitano è quello al risarcimento del danno subito per l’irragionevole durata dei processi, notissima piaga della Giustizia italiana, che ha in passato condotto il nostro Paese al rischio della sospensione dal Consiglio d’Europa: le cronache raccontano di processi di primo grado che arrivano a durare vent’anni, mentre dall’ultimo rapporto OCSE sulla durata dei processi civili si apprende che in Italia nel 2010 si sono impiegati 564 giorni per il primo grado, contro una media di 240 giorni e contro i 107 giorni del Giappone (per i tre gradi di giudizio il tempo medio in Italia è di 788 giorni, contro i 368 della Svizzera).
Il diritto al risarcimento del danno per durata eccessiva dei processi è riconosciuto dalla legge n. 89 del 2001 (“legge Pinto”), che trova il suo fondamento nella Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, che riconosce ad ogni persona il diritto a vedere la sua causa esaminata e decisa entro un lasso di tempo ragionevole.
In base all’attuale formulazione della legge la durata di un processo si considera sempre irragionevole se è complessivamente superiore ai sei anni, ovvero comunque superiore a tre anni per il primo grado, due per il secondo e uno per il grado di Cassazione.
La legge prevede poi che si considera rispettato il termine ragionevole se il procedimento di esecuzione forzata si è concluso in tre anni, e se la procedura concorsuale (fallimento) si è conclusa in sei anni.
La legge prevede un risarcimento fissato in somma compresa tra 500,00 e 1.500,00 Euro per ogni anno o frazione di anno superiore ai sei mesi eccedente il termine ragionevole di durata del processo, con esclusione del risarcimento nei casi in cui la parte abbia abusato dei poteri processuali in modo da determinare la dilazione ingiustificata del tempo del processo.
La domanda di risarcimento deve sempre essere proposta – a pena di decadenza – entro sei mesi dalla sentenza definitiva che ha definito il giudizio prolungatosi oltre il termine massimo di legge.
Va ricordato che la domanda medesima deve essere presentata a una Corte d’Appello diversa da quella che era competente per territorio nella causa (per il territorio di Napoli è per esempio competente la Corte d’Appello di Roma) e che è obbligatoria l’assistenza di avvocato anche se la causa è esente dal pagamento del “contributo unificato” per le spese di giustizia.
La procedura per ottenere il risarcimento è quindi semplice anche se non immediata (in fondo si sarebbe anche potuto evitare l’obbligo dell’assistenza di avvocato) e non consente di per sé di ottenere risarcimenti importanti.
Si tratta, però, di una procedura particolarmente appetibile e consigliabile solo per le imprese che siano state coinvolte in molte liti e possano quindi cumulare significativi indennizzi.
Qui di seguito un interessante video sul costo sociale ed economico della durata dei processi