Cosa è la prelazione nelle società?

Gli statuti di quasi tutte le società piccole (o comunque non quotate) quando non prevedono il divieto di cessione delle partecipazioni sociali dei soci  (come è usuale nelle società di persone), spesso prevedono un importantissimo limite a tale cessione, ossia la “clausola di prelazione”.

In base a tale clausola statutaria il socio che intende cedere la propria partecipazione alla società a un terzo (socio o non socio) è tenuto, prima di cederla a terzi, a rivolgersi agli altri soci interrogandoli sulla loro eventuale disponibilità ad acquistare la quota (o nelle s.p.a. le azioni che la rappresentano).

Se gli altri soci non sono interessati all’acquisto, allora il socio è libero di cedere la partecipazione a terzi.

La clausola di prelazione è utile a mantenere stabile il capitale sociale e ad evitare che terzi “indesiderati” possano entrare in società ovvero che si alterino gli equilibri tra soci; essa è nota a tutti ma è poco conosciuta nel dettaglio: è utile, invece, conoscerne tutti gli aspetti.

La Società impone il     rispetto della prelazione statutaria.

Cosa succede se non si rispetta la clausola di prelazione?

Se non si rispetta la clausola di prelazione la cessione della quota sociale (uso questo termine in senso generico) non è, come si dice in linguaggio giuridico “opponibile” alla società: in altre parole chi acquista la quota in violazione della clausola di prelazione non diventa socio e la cessione è quindi del tutto inutile (a meno che le parti della transazione non ritengano comunque utile, per qualche ragione, una cessione con soli effetti tra loro “interni”).

I soci aventi diritto alla prelazione (i c.d. “prelazionari”) non possono, però, riscattare la quota dal terzo che l’ha acquisita in violazione della clausola di prelazione.

Si tratta di un’importante differenza tra la prelazione societaria e altre prelazioni previste dalla legge (come quella “agraria”) costantemente affermata dalla giurisprudenza (per la Cassazione “la violazione della clausola statutaria contenente un patto di prelazione comporta, in ragione della sua efficacia reale, l’inopponibilità ai soci e alla società della cessione della partecipazione sociale, nonché l’obbligo di risarcimento del danno. Essa non determina, invece, l’attribuzione del retratto, in quanto forma di tutela che deve essere espressamente prevista dalla legge, non suscettibile di analogia“: da ultimo così Cass. 24559/2015).

 

Come si attiva concretamente una clausola di prelazione?

Per attivare la clausola di prelazione occorre comunicare agli altri soci, nel modo previsto dallo statuto (di solito tramite una lettera raccomandata) la propria intenzione di cedere la quota sociale.

Tale comunicazione (che si definisce tecnicamente “denuntiatio”) deve ovviamente contenere la descrizione di tutte le condizioni della cessione, in modo che i soci prelazionari siano posti in condizione di valutare la convenienza dell’eventuale acquisto.

La denuntiatio deve     essere dettagliata

Secondo un diffuso orientamento della giurisprudenza la denuntiatio deve, per essere efficace, contenere anche il nominativo del terzo potenziale acquirente (l’indicazione del nominativo del terzo, infatti, è necessaria al fine di permettere una completa valutazione circa l’opportunità di esercitare o non la prelazione, sia perché la serietà e congruità dell’offerta possono dipendere anche dalla persona dell’offerente e comunque perché sussiste l’esigenza di una valutazione dell’opportunità di nuovi ingressi che assume rilievo alla stregua dell’interesse sociale: così per esempio la Cassazione nella sentenza 7879/01).

Con la clausola di prelazione si rischia di incassare di meno?

Talvolta, in effetti, in presenza di una clausola di prelazione si rischia di incassare dalla cessione della quota una somma inferiore rispetto a quella che era stata offerta dal terzo.

La prelazione “impropria” può       ridurre il guadagno

Si tratta del caso in cui lo statuto contiene la clausola di prelazione “impropria”, in base alla quale i soci prelazionari (o anche uno solo di essi) possono contestare l’esorbitanza del prezzo offerto dal terzo chiedendo che il prezzo medesimo sia rideterminato al ribasso d’accordo tra le parti o, in mancanza di accordo, da un organo terzo (collegio arbitrale o arbitratore per esempio).

In presenza di una clausola di prelazione impropria, in effetti, il socio intenzionato a cedere la sua quota rischia di incassare meno di quanto avrebbe potuto incassare con una libera contrattazione di mercato.

Si ritiene generalmente, però, che la clausola di prelazione “impropria” non possa imporre ai soci la cessione della partecipazione a prezzo irrisorio (sul punto si registrano diverse posizioni di dottrina e giurisprudenza: materiale a disposizione su richiesta).

La prelazione si applica a        tutte le cessioni?

A che tipo di cessioni si applica la clausola?

Quando si pensa alla cessione di una quota di società si considera di solito l’ipotesi della compravendita.

In realtà la cessione può avvenire anche ad altro titolo e per esempio: i) per donazione; ii) per conferimento in società; iii) a seguito di permuta; iv) a seguito di espropriazione forzata (pignoramento). La cessione, poi, può anche non riferirsi alla piena proprietà della quota ma solo all’usufrutto o al pegno sulla medesima.

Il tema è complesso e non può essere affrontato in questa sede.

Solo a titolo di informazione generale ricordo che la giurisprudenza tende a a valorizzare molto l’interpretazione della clausola di prelazione e quindi a riconoscere un’ampia efficacia alle clausole di prelazione formulate in modo generale e potenzialmente riferito a diverse operazioni e una minore efficacia a quelle di portata minore.

Va ricordato che secondo un orientamento giurisprudenziale piuttosto frequente la clausola di prelazione deve essere oggetto di una interpretazione tendenzialmente restrittiva nelle società di capitali e in particolare nella s.p.a., che hanno una disciplina ispirata al favore per la cessione delle partecipazioni (si vedaTrib. Milano, 10 giugno 2016, n. 7232 e App. Milano, 27 settembre 2012 secondo la quale il principio di libera trasferibilità e circolazione delle partecipazioni sociali è principio generale e, pertanto, esclude la possibilità di accedere ad un’interpretazione analogica o estensiva di disposizioni statutarie che limitino la circolazione delle azioni, quali le clausole di prelazione). Questa posizione è stata ultimamente ribadita anche dal Tribunale di Roma con sentenza del 9 maggio 2017.

La clausola è modificabile?

La prelazione può essere eliminata dallo statuto? E può essere introdotta dopo la costituzione della società?

Gli statuti delle società sono ovviamente sempre modificabili.

Anche la parte dello statuto relativa alla circolazione delle partecipazioni sociali (e quindi all’eventuale prelazione) può quindi essere nel tempo modificata.

I modi e le conseguenze della modificazioni non sono, però, uguali per tutti i tipi di società.

Nelle società di persone è necessario, come per ogni modificazione del contratto di società, il consenso di tutti i soci.

Nelle società di capitali la clausola di prelazione può essere inserita nello statuto o eliminata dal medesimo con decisione dei soci assunta a maggioranza.

Va però considerato che nelle s.p.a. in caso di modifica delle clausole statutarie relative alla circolazione delle azioni i soci che non vi hanno consentito possono recedere dalla società (si veda l’articolo 2437, che esclude però la possibilità di recesso nel caso in cui lo statuto “disponga diversamente”, ossia escluda tale possibilità).

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