COME PROTEGGERSI NEI CONTRATTI DI FORNITURA.

Diverse persone che leggono il blog mi hanno chiesto di occuparmi di contratti.
La richiesta proviene soprattutto da chi ha l’esigenza di assicurare alla propria impresa un’effettiva tutela del credito e una sufficiente protezione contro eccezioni e richieste pretestuose.
In questa scomoda posizione si aspira, comprensibilmente,  ad avere a disposizione un repertorio di clausole di tutela che assomigli quanto più possibile ad un vero e proprio armamentario bellico.
È un tema, che non può certo esaurirsi in un breve post.
Comincio quindi oggi con un inquadramento generale del problema, riservandomi poi di approfondire via via le singole clausole contrattuali delle quali parlerò. Tralascio volutamente la questione dei contratti con i consumatori e la problematica della sottoscrizione specifica di talune clausole.
Secondo la mia personalissima classificazione le clausole protettive possono dividersi in  cinque categorie:
1.    clausole di definizione dell’oggetto della prestazione;
2.    clausole limitative della responsabilità
3.    clausole di decadenza;
4.    clausole di “sterilizzazione” delle azioni della controparte;
5.    clausole di autotutela.
La prima categoria è  riferita alle pattuizioni intese a definire che cosa il contraente debba fare e come lo debba fare.
Questo genere di clausole non è particolarmente rilevante nei contratti di massa, come quelli relativi ai servizi a rete o quelli di vendita di beni di largo consumo.
L’importanza di tali pattuizioni è, invece, maggiore negli accordi  relativi a beni e servizi da realizzare “su misura”, per i quali è frequente il rischio di incomprensioni e – quindi – di controversie.
Si pensi al caso – molto frequente – in cui le parti del contratto di fornitura di una macchina utensile non si accordano con precisione sulle prestazioni della macchina stessa: le eccessive aspettative (o, magari, gli intenzionali fraintendimenti) della parte acquirente possono sfociare in lunghi contenziosi.
Analogo è il caso del contratto per l’arredo di un albergo, che presenta il rischio del contenzioso sulla qualità della fornitura (non vale quasi la pena di ricordare i molti problemi connessi alla definizione dell’oggetto della prestazione di un centro estetico o di una clinica che pratichi interventi di chirurgia plastica).
La precisa definizione dell’oggetto della prestazione è comunque molto importante e richiede attenta riflessione: tale operazione può essere utile sia per la prevenzione delle contestazioni che per lo sviluppo di un migliore rapporto con la clientela, ovviamente favorito dalla precisa conoscenza delle esigenze della medesima.
La seconda categoria comprende le molteplici pattuizioni comunque finalizzate a fissare un limite massimo alla responsabilità per l’inadempimento contrattuale ovvero a escludere – in tutto o in parte – la responsabilità medesima.
Si tratta di clausole molto frequenti, delle quali esiste una variegata casistica, che va dalle formulazioni generali e approssimative (“non si risponde per danni indiretti”, “la responsabilità non è estesa al mancato guadagno”; “gli utenti usano l’impianto a loro rischio e pericolo”)  a patti dettagliati e circostanziati (come avviene nei contratti relativi ai servizi assicurativi e finanziari).
Chi predispone i contratti nutre spesso molta fiducia in queste clausole, la cui rilevanza è enfatizzata nella programmazione aziendale e nella pianificazione delle coperture assicurative e della gestione dei rischi.
Con riserva di approfondire la questione in un altro post, mi pare opportuno suggerire molta cautela in proposito. Le clausole limitative della responsabilità sono, infatti, sottoposte ai limiti generali di validità imposti dall’articolo 1229 del codice civile, per il quale “è nullo qualsiasi patto che esclude o limita preventivamente la responsabilità del debitore per dolo o per colpa grave. È nullo altresì qualsiasi patto preventivo di esonero o di limitazione di responsabilità per i casi in cui il fatto del debitore o dei suoi ausiliari costituisca violazione di obblighi derivanti da norme di ordine pubblico”.
La prudenza non deve, però, indurre a trascurare completamente queste importanti clausole: si tratta solo di studiarne attentamente il contenuto e di verificarne la compatibilità alle norme vigenti.
La terza categoria è quella delle clausole di decadenza, che impongono precisi limiti temporali per le azioni delle controparti contrattuali (“non si accettano reclami decorsi trenta giorni”; “il rimborso deve essere richiesto entro una settimana”….).
Per la mia personale esperienza si tratta di clausole poco utilizzate, anche perché, forse, difficili a presentare e giustificare alla clientela.
Queste clausole  soggiacciono al limite generale di validità di cui all’articolo 2965 del codice civile, norma per la quale “è nullo il patto con cui si stabiliscono termini di decadenza che rendono eccessivamente difficile a una delle parti l’esercizio del diritto”.
Sono convinto che, fermo il rispetto delle regole di legge, vi possano essere spazi importanti per un maggiore utilizzo delle clausole in questione, che potrebbero, per esempio, essere parte integrante di una strategia commerciale (es: la sostituzione delle parti difettose chiesta entro tot  giorni è gratuita, dopo di che si deve pagare una certa somma….).
La quarta categoria (quella delle clausole di “sterilizzazione” delle azioni) comprende tutti i patti comunque diretti a limitare il diritto di iniziativa  in giudizio della controparte. L’esempio più noto è il patto “solve et repete” richiamato dall’articolo   del codice civile: si tratta della previsione convenzionale del divieto di proporre eccezioni a carico del soggetto non perfettamente adempiente (previsione valida solo nei limiti in cui  all’articolo 1462 c.c., per il quale “la clausola con cui si stabilisce che una delle parti non può opporre eccezioni al fine di evitare o ritardare la prestazione dovuta, non ha effetto per le eccezioni di nullità, di annullabilità e di rescissione del contratto”).
Rientrano nella categoria delle clausole di sterilizzazione anche altri patti, come la previsione dell’obbligo di adire un organismo di conciliazione prima di proporre azioni in giudizio, la convenzione di deposito del prezzo in caso di contestazione, l’obbligo della veloce risoluzione stragiudiziale delle controversie di contenuto tecnico.
In questa categoria mi pare rientrare anche il patto di inversione dell’onere della prova dell’inadempimento (molto utile in un sistema che accoglie il principio per il quale il debitore della prestazione deve dare la prova di avere correttamente adempiuto), patto valido nei limiti di cui all’articolo 2698 c.c., per il quale “sono nulli i patti con i quali è invertito ovvero è modificato l’onere della prova, quando si tratta di diritti di cui le parti non possono disporre o quando l’inversione o la modificazione ha per effetto di rendere a una delle parti eccessivamente difficile l’esercizio del diritto”.
Si tratta di clausole molto opportune nei contratti “di durata” nei quali l’impresa è esposta al rischio di dover proseguire le proprie prestazioni in favore di contraenti non perfettamente adempienti. L’utilità di simile clausola è, per esempio, evidente negli appalti di lavori complessi nei quali l’appaltatore può vedersi in qualche modo costretto a completare l’opera nonostante il committente abbia congelato il pagamento di parti della stessa oggetto di contestazione.
La maggiore difficoltà nell’applicazione di queste clausole deriva – come ben può essere intuito – dal rapporto con la clientela, che può essere restia ad accettare limitazioni delle proprie facoltà di azione.
Occorre, tuttavia, considerare che una controparte in buona fede potrebbe volentieri accettare una qualche compressione delle proprie facoltà a fronte della certezza di ottenere prestazioni di alta qualità e rapida soluzione dei conflitti.
L’ultima categoria è quella delle clausole di “autotutela”.
Si tratta degli strumenti contrattuali finalizzati ad ottenere tutela delle ragioni di credito senza ricorso all’Autorità Giudiziaria.
Tali strumenti sono da sempre conosciuti nella tradizione italiana, che conosce istituti come gli interessi moratori, i titoli di credito, il pegno e la riserva di proprietà.
Sono convinto che esistano ulteriori ampi spazi per lo sviluppo delle clausole in questione sia in termini di migliore e più ampio utilizzo degli attuali strumenti del titolo di credito, del pegno e della riserva di proprietà, che in termini di creazione di nuovi strumenti di autotutela.
Azzardo qualche nuovo strumento di questo tipo. Si potrebbe trattare di clausole che consentano al creditore non pagato di riprendere in ogni luogo la detenzione del bene ceduto, oppure di clausole che consentano l’immediato sloggio di chi occupa un bene senza pagare il corrispettivo del godimento del medesimo, oppure ancora di clausole che consentano interventi “a distanza” per via telematica diretti ad inibire l’utilizzo di beni e servizi.
Già conosciute dalla prassi ma ancora molto da studiare e sviluppare mi paiono anche le clausole che prevedano l’applicazione di multe o altre sanzioni patrimoniali per gli inadempimenti della controparte.
Fin qui una panoramica (generale e da approfondire) delle principali clausole di tutela del credito.
Non si può però in conclusione non osservare come qualsiasi clausola di questo genere sia destinata a rimanere del tutto inefficace senza un attento lavoro preventivo di verifica della solvibilità e della correttezza delle controparti contrattuali.

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