ESISTONO ANCORA I PROCESSI CIVILI DOPO IL DECRETO “FARE”?

Spesso un accordo è più economico e veloce di una causa
Spesso un accordo è più economico e veloce di una causa.

Il decreto “fare” (21 giugno 2013 n. 69, “Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia”) è entrato in vigore il 22 giugno scorso e contiene diverse misure che interessano il mondo dell’impresa.

Poco di nuovo nell’impostazione, per la verità. Si procede con il metodo già ampiamente sperimentato con i vari provvedimenti targati “competitività” “rilancio” o “salvezza”: la modifica di alcune parti di legge e codici preesistenti, con l’introduzione di regole che dovrebbero essere ispirate a criteri di efficienza.

Da qualche anno il legislatore dei periodici provvedimenti “efficientisti” ha preso a intervenire sulla giustizia civile, identificata da molte parti come vera e propria zavorra del sistema economico italiano

Il fatto è che non è possibile adottare rimedi “forti”, come l’investimento di risorse nell’organico della Magistratura e nella digitalizzazione dei processi e, soprattutto, l’introduzione di sistemi di controllo tali da obbligare gli operatori del settore (avvocati e magistrati) a lavorare bene e in fretta.

Dopo anni di grida efficientiste manca un vero sistema di controllo sulla “qualità” del servizio dei Giudici ( rispetto dei termini da parte dei Magistrati, esattezza delle sentenze, rotazione effettiva degli incarichi dei Consulenti Tecnici ….). Manca, allo stesso modo, uno sforzo dell’Avvocatura per rendere trasparente la propria offerta di servizi e per assicurare alla clientela una verifica a priori e a posteriori della qualità del servizio di difesa.

Il decreto “fare” ripropone un rimedio ai mali della giustizia civile che era già stato tentato in passato senza superare l’esame della Corte Costituzionale.

Si tratta di un rimedio tanto semplice quanto, obiettivamente, un po’ grossolano: ci sono troppe cause? Facciamo in modo che le parti si mettano d’accordo!

Il decreto, contiene, infatti, norme che valorizzano e incentivano la conciliazione delle liti.

Il Governo ha, anzitutto, reintrodotto il tentativo di mediazione obbligatorio prima dell’inizio di qualsiasi causa in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica o diffamazione con il mezzo della stampa o altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari finanziari o assicurativi (ma non è stata riproposta la conciliazione preventiva obbligatoria per le cause relative al risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli).

Secondo il modello ormai collaudato la mediazione deve essere tentata, appunto, dinanzi ad uno degli enti di conciliazione registrati presso il Ministero della Giustizia e il suo esperimento costituisce “condizione di procedibilità” delle azioni in giudizio nelle materie per le quali è prevista l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione. La procedura di mediazione preventiva è stata ridisegnata rispetto a quanto si era previsto in precedenza con il decreto legislativo 28/2010.

Il decreto del “fare” prevede, infatti, lo svolgimento di un incontro preliminare tra il mediatore e le parti in cui viene verificata la possibilità di proseguire l’esperimento mediatorio; qualora in questa sede le parti non risultino interessate alla procedura, i costi della mediazione sono piuttosto contenuti (80 euro per le liti fino a mille euro, 120 fino a 10 mila euro, 200 fino a 50 mila euro, 250 per le liti di valore superiore).

Se la procedura di conciliazione può proseguire si applicano le ordinarie tariffe di mediazione e l’intero iter mediativo deve concludersi entro tre mesi. L’accordo conciliativo eventualmente raggiunto non è in tutto e per tutto equivalente a una sentenza ma deve ottenere dal Tribunale una dichiarazione di omologazione per poter assumere l’efficacia di titolo esecutivo.

L’assistenza di avvocato non è obbligatoria durante la procedura di conciliazione: se, però, il verbale di conciliazione non è sottoscritto dagli avvocati delle parti è impossibile ottenere dal Tribunale l’omologazione dell’accordo.

La spinta alla conciliazione delle liti contenuta nel decreto “fare” non si ferma solo alla fase che precede il contenzioso, ma arriva sin “dentro” il processo.

Il decreto, infatti, introduce anzitutto nel codice di procedura civile il nuovo articolo 185bis, per il quale il Giudice, nella prima udienza ovvero sino a quando non sia esaurita la fase istruttoria, è tenuto a formulare una proposta transattiva o conciliativa alle parti. Il rifiuto di tale proposta costituisce comportamento valutabile ai fini del giudizio.

Il decreto, poi, prevede poi (attraverso una modifica del decreto 28/2010 relativo alla conciliazione) che in ogni fase del processo il Giudice possa sospendere la causa e imporre alle parti di tentare la mediazione della lite avanti un organismo di mediazione: fino a che le parti non hanno svolto il tentativo il processo non può riprendere il suo corso.

La reintroduzione della mediazione preventiva obbligatoria e le novità relative alla mediazione nel corso del processo portano a interrogarsi su che cosa è oggi il processo civile e su quale deve essere il lavoro del difensore e della parte nel preparare un processo.

Il processo civile si sta evolvendo e sta diventando, quantomeno in parte, qualcosa di diverso da un sistema uniforme finalizzato a stabilire la parte che, visti codici e leggi, ha ragione in un litigio.

Un simile sistema non è, semplicemente, più compatibile con le difficoltà finanziarie e organizzative della macchina amministrativa pubblica.

Si sta andando, allora, verso un sistema composito, nel quale la probabilità dello svolgimento di un “vero” processo sono sempre di meno.

La macchina giudiziaria spinge, infatti, i contendenti alla conciliazione della lite in molti modi.

Tante, infatti, sono le ragioni per le quali una parte può risolversi a trovare un’intesa con la controparte.

Conciliare può convenire (o essere di fatto necessario) perché:

– i processi di primo grado durano molto tempo e hanno un costo che non tutti possono permettersi;

– anche se si vince in primo grado c’è sempre il rischio di un appello e poi quello di un ricorso in Cassazione;

– certi processi (che sono anche quelli più frequenti) non possono neppure iniziare se non si è tentata la conciliazione:

– il Giudice, dopo il decreto del “fare” è addirittura obbligato a proporre alle parti una conciliazione e può rimettere le parti avanti un organismo di mediazione perché tentino la composizione della lite.

Nonostante la spinta alla conciliazione ci sono ancora, ovviamente, dei processi destinati a svolgersi e, magari, anche a non durare troppo tempo (penso, ad esempio, ai procedimenti cautelari).

Il sistema è, quindi composito e talmente complesso che sarebbe ingenuo chi pensasse oggi di affrontare un processo limitandosi a soppesare preventivamente i torti e le ragioni.

La strategia processuale deve, invece, essere molto più ampia e tenere in considerazione anche la gestione delle procedure conciliative (prima e durante il processo).

Questo implica che l’azione in giudizio deve essere preceduta da un’attenta valutazione delle risorse che possono essere “spese” in una procedura di mediazione: quali interessi sono irrinunciabili? su cosa si possono fare delle concessioni? La controparte sarà disponibile a una conciliazione? E soprattutto: vale la pena di allargare la domanda a questioni secondarie che possono essere materia di scambio nel corso di una mediazione?

Un paio di esempi può aiutare a comprendere la questione.

Il primo esempio si riferisce al contenzioso con le banche.

Chi ha pratica dei corridoi dei Tribunali sa che gli operatori del processo (avvocati e magistrati) sanno bene che certi istituti bancari sono più o meno propensi di altri a conciliare le liti.

Sarebbe davvero un grave errore non tenere conto di queste informazioni e proporre una causa non adeguatamente preparata e senza prove sufficienti perché “tanto le Banche arrivano sempre a uno stralcio” o perché “un mio conoscente ha fatto causa per l’anatocismo ed è arrivato subito a una transazione“: bisogna invece sapere bene che, a quanto pare (anche se non esistono ovviamente dati ufficiali in proposito) non tutti gli istituti di credito sembrano essere disposti a transazioni, indipendentemente dalla fondatezza delle ragioni dei clienti.

L’altro esempio si riferisce alle cause in materia di diritto societario promosse dai soci di minoranza delle società.

Come molti sanno queste cause sono spesso proposte con finalità di disturbo, nell’intento, più o meno celato, di ottenere la liquidazione monetaria delle partecipazioni minoritarie.

Spesso, però, coloro che propongono tali azioni si concentrano su questioni per le quali è difficile che si possa arrivare a una conciliazione (penso alle impugnazioni di bilancio che durano molto tempo e rischiano di essere vanificate dall’approvazione tempestiva di bilanci rettificati).

Un’impostazione difensiva attenta alle prospettiva della conciliazione dovrebbe, invece, concentrarsi sulle materie nelle quali è più probabile che la controparte possa giungere a una conciliazione: mi riferisco alle azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori o alla contestazione dell’operato del collegio sindacale o del revisore contabile (che mi pare poco praticata dagli avvocati del contenzioso societario).

È, quindi, bene pensare alla conciliazione quando si progetta una causa. Questo anche perché non va mai trascurato che una causa persa “costa” molto in termini economici e di reputazione della parte sconfitta.

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