Le volevo chiedere, Lei non ha mai sentito parlare della LEGGE ANTI SUICIDI. Volevo valutare con Lei se la legge si può applicare al mio caso…”
Qualche settimana fa ho aperto la posta elettronica e ho trovato il messaggio che ho riportato testualmente sopra (comprese le virgole e le maiuscole…).
Chi lo ho scritto è un uomo non più giovane che ha prestato fideiussioni per sostenere l’attività della s.r.l. che aveva costituito con la moglie.
La società di famiglia godeva, infatti, di ingenti finanziamenti e di credito dai fornitori, ma l’incertezza del settore di attività aveva fatto sì che i finanziatori e i fornitori strategici chiedessero ai soci di garantire personalmente l’esposizione della s.r.l.
Nella produzione normativa e giurisprudenziale recente sono da segnalare alcune novità in materia di concordato preventivo.
La prima novità è contenuta nel decreto 91/2014, del quale ho parlato in altro post.
Il comma 7 dell’art. 22 del decreto ha, infatti, abrogato la previsione dell’art. 11, comma 3-quater del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 145, c.d. piano «Destinazione Italia», che era stata introdotta dalla legge 21 febbraio 2014, n. 9 di conversione del decreto.
Negli ultimi anni molti professionisti (commercialisti, avvocati e altri) sono stati chiamati a prestare assistenza alle imprese in crisi e in particolare a curare a vario titolo la complessa procedura necessaria per l’ammissione al concordato preventivo.
Si tratta di attività molto complesse e di grande responsabilità, che spesso l’imprenditore che si trova in difficoltà non è in grado di compensare (o di compensare adeguatamente).
È, pertanto, fondamentale poter contare sul fatto che dopo l’esecuzione del concordato il lavoro svolto sia effettivamente pagato, e non sia saldato con la percentuale, spesso risicata, che ormai si può offrire anche ai creditori privilegiati.
Lo scorso 15 ottobre è stata pubblicata la sentenza 23387/2013 della Corte di Cassazione, che affronta un tema spesso trascurato dall’imprenditore che presenta una domanda di concordato preventivo e dai suoi creditori, interessati solo a che la procedura si concluda quanto prima con la miglior soddisfazione possibile per loro (o quantomeno con meno danni possibile…).
Il tema è quello della possibile “risoluzione” del concordato preventivo, prevista dall’articolo 173 della legge fallimentare, norma troppo spesso ignorata.
“Io quello lì lo faccio fallire, almeno ho una soddisfazione morale …, ” “faccio istanza di fallimento sperando che il debitore paghi per non fallire…“, “è meglio fare istanza di fallimento almeno si risparmio il costo dell’asta dei beni del debitore …., è una società, certamente può fallire…“.
Quelle ora riportare sono frasi che si sentono spesso e che esprimono i comuni pensieri di chi si trova di fronte all’esigenza di recuperare crediti verso debitori particolarmente riottosi.
Prima o poi, quando c’è da incassare una somma, si ipotizza di richiedere il fallimento del debitore, anche perché si pensa – a ragione – che la Procedura Fallimentare abbia gli strumenti legali per individuare attività patrimoniali “nascoste” dal debitore a danno dei creditori.
Lo scorso 20 agosto è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale la legge n. 98/2013 di conversione del c.d. “decreto fare”.
Con questa legge sono diventate definitive le modifiche alla disciplina del cosiddetto preconcordato o “concordato in bianco”, introdotto con decreto legge nello scorso giugno 2012.
Si tratta di una questione che mi pare vada approfondita bene, data la confusione che in proposito regna nel mondo delle imprese, in cui a molti non è ancora ben chiaro quali siano gli effetti della procedura di preconcordato e del successivo eventuale concordato preventivo.
Come è noto il concordato preventivo è una procedura prevista dalla legge fallimentare che consiste in un accordo tra l’impresa in crisi e i suoi creditori per procedere al pagamento dei debiti secondo la procedura (tempi, percentuali, ecc.) proposta dall’impresa.
Nel corso di tale procedura i creditori non possono agire contro il soggetto in concordato e devono limitarsi ad aspettare l’esito della proposta del debitore.
Fino al settembre 2012 il concordato preventivo poteva essere aperto solo con la presentazione di una precisa proposta del creditore consistente in un piano contenente la descrizione analitica dei modi e dei tempi di adempimento di quanto promesso ai creditori: dopo la presentazione di questa proposta l’attività d’impresa era immediatamente sottoposta al controllo di un Commissario nominato dal Tribunale.
La pratica dell’attività delle imprese, da quelle medio piccole a quelle di grandi dimensioni, conosce di frequente il ricorso all’affitto d’azienda, contratto utilizzato alla presenza di particolari esigenze che impongano il temporaneo utilizzo di un complesso aziendale altrui.
All’affitto di azienda si ricorre, per esempio, in presenza di particolari esigenze produttive che impongano l’utilizzo d’impianti supplementari, ovvero quando un imprenditore non sia in grado di investire il capitale necessario per l’avvio di una nuova attività o il rilievo di un’azienda esistente. L’affitto d’azienda è poi sempre più utilizzato nel contesto di programmi di ristrutturazione e rilancio di imprese in crisi.
A giorni entrerà in vigore la riforma del concordato preventivo contenuta nell’articolo 33 del “decreto crescita” estivo convertito dalla legge 134/2012, riforma destinata a “favorire la continuità aziendale” delle imprese in crisi: qui di seguito qualche annotazione sulle maggiori novità di interesse aziendale (prescindendo dalle innovazioni relative al contenuto tecnico-processuale della sequenza concordataria).
Dopo l’abolizione dell’istituto dell’amministrazione controllata la normativa italiana sulla crisi d’impresa non prevedeva alcuno strumento agile e deformalizzato di protezione dell’impresa in crisi dalle azioni dei creditori e non conteneva una regola che consentisse all’impresa in difficoltà (ma non fallita) di sciogliersi dai contratti in corso.
Sul punto non mancavano gli esempi degli ordinamenti stranieri e non sarebbe stato impensabile introdurre uno strumento normativo orientato alla moratoria delle azioni dei creditori e alla risoluzione dei contratti per un periodo sufficiente a consentire la ricerca di una soluzione alla crisi d’impresa.
Il decreto sviluppo n. 83/2012 segna un’importante svolta nella direzione della gestione semplificata della crisi d’impresa, modificando la legge fallimentare.
Le regole della crisi d’impresa sono molto cambiate negli ultimi anni.
Per tradizione secolare l’insolvenza dell’imprenditore commerciale determinava l’apertura a suo carico di una procedura fallimentare, finalizzata ad assicurare il pagamento proporzionale di tutti i creditori in condizioni di parità e caratterizzata da una forte impronta punitiva.
Nella prima metà del ventesimo secolo il sistema è stato mitigato offrendo al debitore “onesto e sventurato” la possibilità di concordare con i creditori non privilegiati (che votano a maggioranza) le condizioni della liquidazione dell’attivo, con forte attenuazione degli effetti sanzionatori dell’insolvenza.
Alla fine del ventesimo secolo un movimento di riforma legislativa ha favorito il concordato preventivo (per esempio eliminando il principio dell’intangibilità dei privilegi) e introdotto un innovativo strumento di composizione contrattuale della crisi d’impresa, definito “accordo di ristrutturazione dei debiti” (di cui parleremo ancora).
Nel nuovo sistema i soggetti coinvolti nella crisi d’impresa devono considerare con molta attenzione i vantaggi e gli svantaggi di una procedura di concordato preventivo, che è complessa e piuttosto costosa (per effetto dei molti interventi professionali richiesti) oltre che caratterizzata – nella pratica – da possibilità d’intervento molto forti del Tribunale e del Commissario da questo nominato.
È presto per fare dei bilanci sul “nuovo” concordato preventivo e sulle sue tante implicazioni.
Forse, però, si può ipotizzare che il concordato preventivo sia utile soprattutto per assicurare la continuità di aziende in funzionamento, che può essere favorita da accordi con i creditori per la sistemazione delle pendenze precedenti e la continuazione dei rapporti di credito e di fornitura.
In questa situazione una “buona” procedura concordataria potrebbe prevedere la cessione dell’azienda “purgata” dai debiti (e accompagnata da opportuni provvedimenti per la tutela occupazionale e previdenziale) e quindi il pagamento di quanto proposto ai creditori.
Il concordato è invece, forse, poco utile quando si tratti della mera liquidazione di un patrimonio (immobili, macchinari, strumenti finanziari…).
In questi casi la procedura potrebbe rivelarsi solo un procedimento più oneroso rispetto a quello fallimentare (salva, forse, la maggiore celerità delle vendite, tutta da verificare) e spesso sfociare in una dichiarazione di fallimento motivata dall’impossibilità di adempimento della proposta concordataria.
L’impresa in crisi deve considerare attentamente la convenienza della soluzione concordataria, mentre i creditori non possono limitarsi, nel compiere dal loro punto di vista la medesima valutazione, a considerare la percentuale di soddisfacimento loro offerta: essi dovrebbero, invece, esaminare con attenzione