SE LA SOCIETÀ È IN PERDITA GLI AMMINISTRATORI SONO TENUTI AL RISARCIMENTO DEL DANNO?

La società è un’organizzazione fondata sulla permanente delega delle funzioni gestionali a soggetti diversi dai soci.
L’utilità economica dell’investimento dei soci medesimi deriva – quindi – dalle capacità e dall’impegno degli amministratori, dai quali ci si attende la capacità di ottenere il massimo profitto per l’investimento dei partecipanti al capitale.
Il codice civile sancisce con diverse norme l’obbligo degli amministratori delle società di agire con diligenza e il loro dovere di risarcire la società del danno derivante dalla violazione di tale dovere (art. 2260 per le società di persone, 2392 per la s.p.a. e 2476 per la s.r.l. Regole recenti hanno reso più incisiva la disciplina della responsabilità degli amministratori, consentendo direttamente ai soci di agire in giudizio per conto e nell’interesse della società per ottenere la condanna degli amministratori al risarcimento del danno.
È convinzione comune che gli amministratori debbano risarcire il danno sofferto dalla società per effetto del cattivo andamento della gestione aziendale.
Si tratta di una convinzione non corretta.

LA FIDEIUSSIONE DEL NULLATENTE: PER TUTTA LA VITA SULLA TORRE DEI DEBITI?

Non è infrequente che gli Istituti di Credito chiedano e ottengano – negoziando la concessione di crediti – garanzie fideiussorie di soggetti che sono e con ogni probabilità saranno nullatenenti o comunque privi di rilevante patrimonio.
Queste persone assumono un’obbligazione, che non saranno mai in grado di soddisfare perché assolutamente sproporzionata alle loro condizioni patrimoniali: in questo modo è condizionata l’intera esistenza del garante, costretto – secondo un’espressione corrente in Germania – a una vita «sulla torre dei debiti».
Nella giurisprudenza della vicina Germania (di cultura e tradizione giuridica assimilabile alla nostra) siffatta prassi è oggetto di valutazioni negative.
A volte si è riscontrata una violazione del § 138 BGB (codice civile tedesco) in base al quale è nullo il negozio contrario al buon costume. Altre volte la valutazione negativa è stata fondata sull’applicazione del § 310 BGB che sancisce la nullità di alienazioni (o di costituzione di usufrutto) aventi a oggetto beni futuri e che garantirebbe il «diritto inalienabile alla speranza e al perseguimento della felicità».

UNA RIFLESSIONE SUL DECRETO 231/01 DIECI ANNI DOPO.

La responsabilità penale-amministrativa di cui al decreto legislativo 231/2011 ( “Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica”) comporta l’applicazione di sanzioni pecuniarie o interdittive quando vengano commessi dei reati nell’ambito dell’organizzazione di: Enti forniti di personalità giuridica, società fornite di personalità giuridica e associazioni anche prive di personalità giuridica, Imprese individuali  (Cass. 15 dicembre 2010, n. 15657) e – forse – studi professionali (Cass. Pen. n. 4703 del 7 febbraio 2012 riferita a laboratorio odontotecnico in forma di società in nome collettivo).
Questa responsabilità, come è noto, è esclusa in caso di adozione da parte degli Enti di modelli organizzativi idonei a prevenire il compimento dei reati.

DANNO ALLA SOCIETÀ E DIMINUZIONE DEL VALORE DELLE PARTECIPAZIONI SOCIALI.

Uno dei problemi ricorrenti del diritto delle società è quello della diminuzione (o della perdita) di valore delle partecipazioni sociali derivante da un danno sofferto dalla società.
Si possono prospettare diversi casi:
– la società subisce gli effetti di una crisi di mercato o di altro evento esterno (condizioni metereologiche avverse, restrizioni alle esportazioni, ecc.);
– un terzo provoca danno alla società in violazione di obbligazione contrattuale: questo accade, per esempio, quando gli amministratori mancano di adempiere i propri doveri, o quando un cliente non paga una fornitura;
– un terzo provoca danno alla società senza violazione di obbligazione contrattuale: questo accade, per esempio, quando la Pubblica Amministrazione non adempie un obbligo di sovvenzione ovvero quando la società è vittima di un illecito.

I “FINANZIAMENTI SOCI” PER LA SENTENZA 2748/2012 DELLA CASSAZIONE.

 

Nelle piccole società bisogna mettere spesso mano al portafoglio...
Nelle piccole società bisogna mettere mano al portafoglio…

La Cassazione (sentenza n. 2758 del 23 febbraio 2012) è tornata sul tema dei “finanziamenti soci” alle società di capitali.
La decisione, resa in una controversia in materia di bilancio, fa il punto sulla natura giuridica di queste erogazioni, precisando che può trattarsi, in alternativa:
– di somme date a titolo di mutuo con l’obbligo per la società di restituire la somma ricevuta a una determinata scadenza.
– oppure di «erogazioni che, pur non costituendo veri e propri conferimenti di capitale e non implicando perciò l’acquisizione o l’incremento di quote di partecipazione nella società, sono destinate ad accrescerne il patrimonio, confluendo perciò in apposite riserve con la denominazione di versamenti “in conto capitale” o “in conto copertura perdite di capitale” o altre simili.»
Secondo la Suprema Corte per stabilire «quando si è in presenza di un versamento in conto capitale di rischio e quando, invece, le somme versate dai soci alla società configurano un vero e proprio rapporto di mutuo, o a questo comunque assimilabile, occorre naturalmente rifarsi alla volontà negoziale delle parti, e quindi al modo in cui essa si è manifestata, desumibile anche, in difetto di altro, dalla qualificazione della relativa posta nel bilancio d’esercizio approvato con il voto dello stesso socio conferente. Ma la prova che il versamento operato dal socio sia stato eseguito per un titolo che giustifichi la pretesa di restituzione – prova della quale è onerato il medesimo socio – dev’essere tratta non tanto dalla denominazione con la quale il versamento è registrato nelle scritture contabili della società, quanto soprattutto dal modo in cui concretamente è stato attuato il rapporto, dalle finalità pratiche cui esso appare essere diretto e dagli interessi che vi sono sottesi».

DIVORZIO NON CONSENSUALE FRA SOCI: NELLE SOCIETÀ DI PERSONE SI PUÒ

Il socio amministratore di una s.n.c. o l’accomandatario di una s.a.s. ha venduto a prezzo vile il principale cespite della società, ha violato il divieto di concorrenza di cui all’articolo 2301 c.c. L’accomandante o il socio non amministratore di una s.n.c. ha violato l’obbligo di conferimento.
In queste, come in altre situazioni simili, è possibile l’esclusione del socio di una società di persone.
Il procedimento di esclusione è disciplinato dall’articolo 2287: «L’esclusione è deliberata dalla maggioranza dei soci, non computandosi nel numero di questi il socio da escludere, ed ha effetto decorsi trenta giorni dalla data della comunicazione al socio escluso. Entro questo termine il socio escluso può fare opposizione davanti al tribunale, il quale può sospendere l’esecuzione. Se la società si compone di due soci, l’esclusione di uno di essi è pronunciata dal tribunale, su domanda dell’altro».

LE SOCIETÀ? RIPOSINO IN PACE!

Una s.r.l. ha realizzato dei macchinari difettosi e li ha venduti senza che gli amministratori della societàsi curassero delle conseguenze .
I compratori subiscono dei danni ma si limitano a inviare delle diffide al risarcimento senza proporre azioni più incisive.
Intanto la società è stata posta in liquidazione e cancellata dal Registro delle Imprese.
Dopo un anno dalla cancellazione i creditori agiscono, ma si rendono conto di non poter ottenere più nulla.

L’EQUILIBRIO TRA LE PARTI NEI CONTRATTI.

Un tema molto importante per gli operatori economici e i loro consulenti è quello dell’equilibrio delle prestazioni nei contratti.
Può, infatti, capitare che dopo la conclusione di un negoziato ci si renda conto che l’accordo raggiunto non è soddisfacente ovvero è gravemente squilibrato.
In questi casi il sistema giuridico non offriva tradizionalmente rimedi soddisfacenti, dato che la possibilità di impugnare un contratto liberamente concluso erano limitate alle ipotesi – eccezionali – della rescissione per lesione ovvero del venir meno di una circostanza presupposta essenziale.
La situazione va oggi cambiando.

COME SI APPROVANO LE DECISIONI DEI SOCI NELLE SOCIETÀ DI PERSONE?

La disciplina delle società di persone contiene numerose norme concernenti le decisioni dei soci che non precisano se le decisioni medesime debbano essere assunte all’unanimità ovvero a maggioranza.
Si vedano ad esempio l’articolo 2259 relativo alla revoca dell’amministratore, l’articolo 2256 relativo all’approvazione del bilancio di esercizio ed all’autorizzazione per l’uso dei beni sociali per fini extrasociali, l’articolo 2301 relativo all’esonero dal divieto di concorrenza.
Altre norme, invece, regolano esplicitamente la questione del quorum.

QUALI SONO I CRITERI PER LA FORMAZIONE DEL RENDICONTO DELLE SOCIETÀ DI PERSONE?

Si ritiene generalmente che nelle società semplici il rendiconto annuale possa essere formato senza rispettare le disposizioni in tema di bilancio d’esercizio: questo perché tali società non sono obbligate alla tenuta della contabilità (Tra i tanti: Campobasso; Ferri;  per la diversa opinione cfr. Ragusa Maggiore, e Weigmann.
Nelle società in nome collettivo ed in accomandita semplice, nelle quali vige, (art. 2302 c.c.), l’obbligo di tenuta delle scritture contabili, si ritiene che il rendiconto debba essere formato secondo i criteri propri del bilancio delle società per azioni, alla luce del principio generale (art. 2217 c.c.) per cui l’imprenditore deve attenersi, nelle valutazioni di bilancio, ai criteri stabiliti per le società per azioni, in quanto applicabili (per riferimenti cfr. Presti-Rescigno, 2005, II, 44).
Per la tutela del socio appare comunque opportuno che nella formazione del contratto sociale vengano inserite clausole che prevedano dettagliatamente i criteri per la distribuzione degli utili e che impongano agli amministratori la formazione di un resoconto articolato, formato secondo i criteri contabili applicabili al bilancio di esercizio.