I soci sono prigionieri della società?

Spesso la società è una prigione. ..

Quali che siano le motivazioni della scelta (pensionamento, volontà di disinvestimento, conflitto con gli altri soci) cedere la partecipazione una piccola società non è facile.

I soci delle piccole società italiane spesso non si rendono conto di essere prigionieri della “loro” società, ossia di avere scarse o nulle possibilità di cedere la propria partecipazione sociale (questo è uno dei tanti esempi della diffusa mancanza della c.d. legal awareness nel mondo delle imprese).

Da una prigione non si può uscire perché ci sono sbarre, cancelli e mura con guardie armate.

In una società non c’è nulla di tutto questo, ma ci sono comunque solidi ostacoli all’uscita dei soci.

Gli ostacoli commerciali e legali alla cessione delle partecipazioni sociali

Da una società non si può uscire (o si può uscire solo con moltissima difficoltà) sia per oggettive ragioni di mercato sia per effetto degli ostacoli legali contenuti nel codice civile e/o nelle clausole dello statuto .

Le oggettive ragioni di mercato sono note:

  • è difficile (ma non impossibile) trovare soggetti disposti ad acquistare l’intero capitale sociale di una società;
  • è difficilissimo (e qualche volta impossibile) trovare soggetti disposti a rilevare quote di capitale, soprattutto se si tratta di quote di minoranza.

Qui mi concentrerò sugli ostacoli legali alla cessione delle partecipazioni che possono rendere i soci dei veri e propri prigionieri delle società.

La cessione delle quote di società di persone

Il principale ostacolo legale è legato alla natura della società e si riferisce alle società di persone.

In questo tipo di società, infatti, le partecipazioni sociali non si possono cedere a terzi senza il consenso di tutti i soci, a meno che il contratto di società non ne consenta la cessione (cosa che accade molto di rado) o -quantomeno – ne consenta la cessione in misura limitata (per esempio solo in favore del coniuge o di parenti stretti).

Nelle società di persone una limitata libertà di cessione esiste solo per i soci accomandanti delle società in accomandita semplice.

Per costoro, infatti, l’articolo 2322 del codice civile, prevede la possibilità di cedere la propria quota purché ci sia il consenso dei soci che rappresentano la maggioranza del capitale.

La cessione delle quote di società di capitali

Nelle società di capitali in linea di principio non esiste una preclusione alla cessione delle partecipazioni sociali.

Quello che la legge non prevede, però, lo prevedono spessissimo gli statuti sociali, nei quali sono inserite clausole tali da ostacolare l’uscita dalla società.

Queste clausole, purtroppo, di solito sono accettate senza discussione dai soci, che normalmente non controllano il testo dello statuto predisposto dai consulenti: questo accade sia quando la società è l’evoluzione di un’impresa familiare o coniugale sia quando la società è costituita tra persone non legate da particolari vincoli.

Le clausole più diffuse sono quella di prelazione e quella di gradimento.

Il divieto di cessione.

Il primo tipo di ostacolo è costituito dalle clausole statutarie che istituiscono il divieto di cedere le partecipazioni sociali.

Nelle s.p.a. il divieto è ammesso dall’articolo 2355bis del codice civile, per il quale il contratto di società può vietare la circolazione delle azioni per il periodo massimo di cinque anni dalla costituzione della società o comunque dal momento in cui il divieto è inserito nello statuto sociale.

Nelle s.r.l. il divieto è consentito dall’articolo 2469, per il quale per il quale il contratto di società può vietare la circolazione delle quote sociali per un periodo massimo di due anni senza limitazioni e oltre tale periodo solo se il contratto attribuisce al socio il diritto di recesso.

La clausola di prelazione

Il secondo tipo di ostacolo è costituito dalla clausola di prelazione, per la quale il socio che intenda cedere le proprie azioni o la propria quota è tenuto a offrirle in vendita in via preventiva agli altri soci e a preferirli nella vendita al terzo che si era dimostrato interessato all’acquisto.

Talvolta le clausole di prelazione prevedono parità di condizioni tra i soci e il terzo possibile acquirente.

Spesso, però, le clausole di prelazione presentano una caratteristica molto insidiosa per chi voglia cedere la propria partecipazione.

Si tratta della previsione per cui i soci destinatari dell’offerta in prelazione di una partecipazione sociale possono contestare il prezzo indicato nell’offerta, chiedendo che il prezzo sia rideterminato da un terzo (spesso indicato in un esperto della materia contabile).

Le clausole di prelazione di questo tipo si definiscono “improprie” e costituiscono un ostacolo molto forte al raggiungimento dell’obiettivo di cedere in modo soddisfacente la propria partecipazione sociale, specie quando la procedura di verifica del prezzo è complessa e costosa o ha comunque come risultato un’importante riduzione del prezzo medesimo.

Si ritiene però generalmente che la clausola di prelazione “impropria” sia invalida quando abbia l’effetto di imporre al socio di cedere la propria quota a prezzo infimo.

 

La clausola di gradimento.

 

Altro ostacolo alla cessione delle partecipazioni sociali è la clausola di gradimento ossia:

  • la previsione per cui le partecipazioni possono essere cedute solo a soggetti aventi determinati requisiti (come la cittadinanza o la categoria professionale)
  • oppure la previsione per cui le partecipazioni possono essere cedute solo in presenza del consenso (appunto il “gradimento” di un organo della società come il Consiglio di Amministrazione o l’assemblea).

Sulle clausole di gradimento del primo tipo non ci sono limiti legali.

Per quelle del secondo tipo la legge prevede un limite di efficacia

Per l’articolo 2355bis del codice civile, infatti, le clausole dello statuto di società per azioni che subordinano il trasferimento delle azioni al mero gradimento di organi sociali o di altri soci sono inefficaci se non prevedono, a carico della società o degli altri soci, un obbligo di acquisto oppure il diritto di recesso dell’alienante (una regola analoga è contenuta nell’articolo 2469 per le s.r.l.).

 

Prelazione + gradimento

 

Spesso la clausola di prelazione e quella di gradimento sono combinate, determinando una doppia barriere alla cessione delle partecipazioni, come nel caso della clausola qui riassunta, tratta dallo statuto di una piccola società: per il trasferimento delle partecipazioni sociali ad altri soggetti per atto tra vivi è necessario il previo gradimento di tutti i soci … mediante apposita decisione … senza obbligo di motivazione (fin qui il primo ostacolo, superato il quale in ogni caso) spetta agli altri soci, regolarmente iscritti a libro soci, il diritto di prelazione per l’acquisto.

 

Come evitare la prigionia?

 

Per evitare di essere prigionieri di una società l’unica vera soluzione è quella di contrattare con attenzione le clausole dello statuto al momento in cui si entra in società e di cercare ogni possibile occasione per modificare lo statuto se non è stato possibile discuterlo in prima istanza.

Se non è stato possibile contrattare e si ha l’esigenza di superare gli ostacoli statutari alla cessione della partecipazione occorre studiare con attenzione lo statuto per verificare se davvero i limiti al trasferimento sono validi ed efficaci.

Spesso, infatti, negli statuti sono inserire clausole di gradimento non efficaci (come quella che ho appena trascritto) o clausole di prelazione “improprie” invalide perché impongono la cessione a prezzo troppo basso rispetto ai valori di mercato.

Se, però, le clausole statutarie superano l’esame di legittimità, purtroppo c’è poco da fare e occorre rassegnarsi e cercare di migliorare in altro modo il rendimento della partecipazione (per esempio insistendo per un’effettiva distribuzione periodica degli utili… quando ce ne sono).

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