Cos’è la supersocietà?

Negli ultimi anni stanno aumentando i casi in cui i Tribunali dichiarano il fallimento di una “supersocietà”.

La “supersocietà” è:

  • una società di fatto, ossia una società non iscritta nel Registro delle Imprese;
  • pertanto una società di persone in cui i soci rispondono illimitatamente e solidalmente dei debiti della società;
  • una società alla quale partecipano una o più altre società, anche di capitali.

Il tema della supersocietà è importante perché a questo tipo di società si applica (come a ogni società di persone) l’articolo 147 della legge fallimentare, norma relativa al cosiddetto fallimento “in estensione”.

In base a tale norma:

  • in caso di fallimento di una società di persone deve essere dichiarato anche il fallimento dei soci, pur se non persone fisiche, illimitatamente responsabili, anche se non personalmente insolventi;
  • se dopo la dichiarazione di fallimento di un’impresa (individuale o societaria) risulta che l’impresa è in realtà riferibile a una società di fatto allora questa società deve essere dichiarata fallita e con essa i suoi soci illimitatamente responsabili, anche se non personalmente insolventi.

Questo significa che quando una società (solitamente una s.r.l.) è coinvolta nell’attività di una supersocietà, di fatto essa rischia di fallire quando la supersocietà alla quale partecipa è dichiarata fallita in quanto non in grado di adempiere i debiti contratti per la sua attività.

Quando esiste una supersocietà?

Secondo quello che si legge nelle sentenze della Cassazione e dei Tribunali la supersocietà esiste quando si possono riscontrare i “tipici” elementi costituenti una società:

  • identità di scopo sociale imprenditoriale tra i partecipanti alla supersocietà;
  • esistenza di un fondo comune;
  • uso promiscuo dei medesimi mezzi organizzati per l’attività di impresa (immobili, veicoli, macchinari, ecc.;
  • condivisione di elementi patrimoniali attivi (per esempio crediti verso clienti);
  • condivisione delle passività.

Al di là delle definizioni tecniche, quindi, non esiste una supersocietà quando si ha solamente il caso (molto frequente, per la verità) in cui del soggetto che “domina” altra società, senza commistione di elementi patrimoniali.

Il fondo comune è un elemento della supersocietà

Un esempio di supersocietà

Un esempio di supersocietà è quello di cui tratta la sentenza della Corte di Appello di Ancona n. 332/2020 (disponibile a richiesta di chi fosse interessato).

La Corte ha ritenuto esistente una società di fatto cui partecipava una società di capitali, ravvisando l’esistenza di “fondo comune… identità della sede legale… unicità organizzativa… identità della compagine sociale … commistione patrimoniale e … perseguimento di un comune interesse “.

Nel caso esaminato dalla Corte due società di capitali:

  • avevano avuto identica sede operativa;
  • avevano utilizzato promiscuamente dei macchinari senza tenere conto della loro appartenenza;
  • avevano effettuato trasferimenti e ritrasferimenti reciproci di dipendenti;
  • avevano avuto un unico finanziatore;
  • avevano avuto un portafoglio clienti comune con la “canalizzazione” della clientela dall’una all’altra società;
  • avevano effettuato il trasferimento di un ramo d’azienda dall’una all’altra società senza corrispettivo.

Un altro esempio di supersocietà

Altro esempio di supersocietà è quello oggetto della sentenza del Tribunale di Bergamo del 5 dicembre 2018 (pubblicata dal sito ilcaso.it).

In questo caso:

  • una srl svolgeva attività edilizia e si era trovata impossibilitata a proseguirla per mancanza del “DURC”;
  • nella sede della società l’attività era quindi stata proseguita da un’impresa individuale costituita da un socio della società;
  • di ciò erano stati notiziati i clienti;
  • l’impresa individuale e la società avevano operato in condizioni di totale commistione patrimoniale tanto che il sito internet della società riportava … le indicazioni relative all’impresa individuale, mentre l’impresa individuale aveva prelevato senza corrispettivo merci della società;
  • i corrispettivi pagati dai clienti per prestazioni della impresa individuale erano stati versati sul conto della società;
  • la società aveva contratto un finanziamento palesemente destinato all’impresa individuale;

Perché bisogna tenere conto della supersocietà?

La possibilità che una società sia coinvolta in una “supersocietà” deve sempre essere tenuta presente.

Nella pratica, infatti, gli enti societari operano spesso in condizioni di commistione patrimoniale.

Può, per esempio, accadere che una società di grandi dimensioni operi insieme ad altra più piccola per compiere uno specifico affare, con modalità tale da confondere i patrimoni delle due società (per esempio attraverso scambi di dipendenti o di attrezzature).

In una situazione del genere, non certo infrequente, la società di maggiori dimensioni di solito non intende sopportare l’intero rischio di impresa dello specifico affare e quindi immagina che non sarà necessario intervenire per ripianare eventuali perdite.

Se, però, è configurabile (e in concreto individuata) una supersocietà di fatto e questa è dichiarata fallita la società di maggiori dimensioni rischia il fallimento “in estensione” anche se non è in concreto insolvente (a meno che non …provveda a ripianare tutti i debiti della supersocietà).

Quando il Tribunale può intervenire nella vita delle società?

Spesso i soci, gli amministratori e i sindaci delle società di capitali trascurano il fatto che la legge prevede la possibilità di un penetrante intervento del Tribunale volto a rimediare a irregolarità nella gestione sociale.

Questo intervento è previsto dagli articoli 2409 (per le s.p.a.) e 2476 (per le s.r.l. prive di organo di controllo), che consentono di presentare una “denuncia” al Tribunale (civile) competente.

Cosa succede se non si adempie un contratto preliminare?

Come noto, nel nostro sistema legale tutti i contratti sono vincolanti e non esistono (se non casi eccezionali o in particolari situazioni) possibilità di non adempiere un contratto che si è liberamente sottoscritto (tra questi casi eccezionali vi sono quelli regolati dal settore del diritto dedicato alla protezione di categorie “deboli”, come i consumatori o le microimprese).

Cookie: cosa sono e come funzionano

Negli ultimi anni, complici le recenti normative sulla privacy, si sente parlare sempre più spesso di cookie. In questo articolo vedremo cosa sono i cookie e come funzionano, nonché quali sono gli obblighi dei siti che ne fanno uso.

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Curiosità: perché i cookie si chiamano cookie?

La parola cookie, che in inglese significa biscotto, deriva dal termine informatico magic cookie, che indica genericamente un pacchetto di dati scambiato tra due programmi comunicanti (nel caso dei cookie usati su Internet, i due programmi sono il sito e il browser). Si stima che il termine magic cookie sia stato utilizzato per la prima volta nel 1979, ben prima della nascita di Internet come lo conosciamo oggi, ma l’origine esatta è ancora incerta. Secondo una delle teorie più popolari il nome cookie deriverebbe da Fortune, un vecchio programma Unix che visualizzava frasi casuali simili a quelle che si trovano nei biscotti della fortuna. Il file dove erano salvate le frasi si chiamava appunto cookie.


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Quando i finanziamenti dei soci sono “postergati”?

I soci spesso prestano soldi alla società invece di capitalizzarla

Molto di frequente nella società di piccole dimensioni o a base familiare (s.r.l. o s.p.a. cosiddette “chiuse”) i soci preferiscono effettuare dei finanziamenti alla società invece che dotarla di capitale.

In questo modo i soci sperano di vedere ridotta la loro esposizione al rischio di impresa, dato che il denaro messo a disposizione della società non è – nelle loro intenzioni – da considerarsi capitale di rischio.

Gli amministratori possono agire nell’interesse di un’altra società?

Spesso gli amministratori di società sono chiamati a rispondere – in sede civile o penale – di atti dannosi per la società da essi amministrata compiuti nell’interesse della società capogruppo o di altre società del gruppo del quale la società fa parte.

Questi atti possono consistere, per esempio, in:

  • finanziamenti senza corrispettivo di mercato:
  • prestazione di garanzie
  • conclusione di contratti a condizioni non vantaggiose
  • messa a disposizione di beni e servizi senza adeguato corrispettivo (si pensi al caso in cui una società “presta” uffici o laboratori ad altre società del gruppo senza percepire un canone di mercato).

In sede civile gli amministratori possono essere chiamati al risarcimento del danno causato da questo genere di atti, sulla base delle regole generali in tema di responsabilità degli amministratori (articolo 2393 del Codice Civile per le s.p.a. e articolo 2476 per le s.r.l.) e di sanzione del conflitto di interessi degli stessi.

L’azione civile è spesso proposta dopo il fallimento della società a iniziativa del curatore fallimentare e spesso coinvolge gli Organi di controllo della società ai quali viene imputata l’omissione dei doverosi controlli.

Quello che viene loro imputato è – infatti – di avere agito non nell’interesse della società che amministravano ma nell’interesse di un’altra società: spesso la capogruppo e talvolta altra società del gruppo.

In sede penale – invece – sì configura anzitutto il reato di infedeltà patrimoniale previsto e punito dell’articolo 2634 del codice civile, norma per la quale

Gli amministratori, i direttori generali e i liquidatori, che, avendo un interesse in conflitto con quello della società, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o altro vantaggio, compiono o concorrono a deliberare atti di disposizione dei beni sociali, cagionando intenzionalmente alla società un danno patrimoniale, sono puniti con la reclusione da sei mesi a tre anni”.

Sempre in sede penale si può configurare il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, previsto e punito dall’articolo 223 della legge fallimentare.

Si tratta di casi molto frequenti, nei quali la difesa degli amministratori richiama sempre le regole del codice civile che fanno riferimento ai “vantaggi compensativi” nei gruppi di società, ossia all’ipotesi in cui un atto dannoso per la società che fa parte di un gruppo possa essere giustificato dai vantaggi che derivano dall’appartenenza al gruppo.

Le nome in questione sono l’articolo 2497 e il (già citato) articolo 2643.

L’articolo 2497 del Codice stabilisce che:

  •  il soggetto che esercita un’attività di direzione e coordinamento su altra società deve agire secondo principi di corretta gestione imprenditoriale della società diretta:
  • se non provvede in questo senso deve risarcire il danno causato a meno che non dimostri che il danno risulta mancante alla luce del risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento ovvero integralmente eliminato anche a seguito di operazioni dirette a questo scopo .

Il successivo articolo 2634 stabilisce – poi – che:

in ogni caso non è ingiusto il profitto della società collegata o del gruppo, se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo.

A prima vista le norma ora richiamate sembrerebbero offrire agli amministratori una importante e preziosa difesa: richiamando il fatto che la società opera all’interno di un gruppo sembrerebbe possibile ottenere una giustificazione per atti dannosi.

Esaminando le sentenze relative al tema degli atti dannosi per la società ma favorevoli per il gruppo si nota – però – che molto spesso le difese degli amministratori non hanno successo

Il richiamo di un “vantaggio compensativo” derivane dall’appartenenza della società amministrata a un gruppo non vale, infatti, a evitare la condanna in sede civile o penale.

L’insuccesso dell’eccezione relativa ai “vantaggi compensativi” deriva dal fatto che molto di frequente gli amministratori si limitano a difendersi osservando – genericamente – che l’appartenenza al gruppo portava alla società delle opportunità favorevoli in termini di chance di affari o che nel complesso Il risultato della appartenenza al gruppo è stato positivo.

Secondo la giurisprudenza una simile difesa non è sufficiente.

Per orientamento costante, infatti, per escludere la natura distrattiva di un’operazione infragruppo invocando l’esistenza di “vantaggi compensativi”, non è sufficiente allegare la mera partecipazione al gruppo, ovvero l’esistenza di un generico vantaggio per la società

È, invece, necessario dimostrare che esiste un “saldo finale positivo” delle operazioni compiute nella logica e nell’interesse del gruppo.

E poiché di solito gli amministratori sono chiamati a rispondere del loro operato prima che la partecipazione della società a un gruppo abbia portato dei vantaggi superiori agli svantaggi si richiede che essi dimostrino, difendendosi, che esisteva la concreta e fondata prevedibilità di benefici per la società apparentemente danneggiata dall’operazione “temporaneamente svantaggiosa”.

Si veda in proposito, da ultimo, la decisione della Cassazione Penale del 27 febbraio 2020, n.13284

In sede civile si veda per esempio la decisione della Cassazione n. 16707 del 24 aprile 2004

In questa sentenza la Corte ha precisato quanto segue:

In tema di responsabilità degli amministratori di società di capitali verso la società stessa, appartenente ad un gruppo societario, ha rilievo (anche a prescindere dal testo dell’art. 2497 c.c. come novellato dall’art. 5 d.lg. 17 gennaio 2003 n. 6) la considerazione dei cosiddetti vantaggi compensativi derivanti dall’operato dell’amministratore, riflettentisi sulla società in conseguenza della sua appartenenza al gruppo e idonei a neutralizzare, in tutto o in parte, il pregiudizio cagionato direttamente alla società amministrata; tuttavia non è sufficiente, al fine di escludere corrispondentemente la responsabilità, la mera ipotesi della sussistenza dei detti vantaggi, ma l’amministratore ha l’onere di allegare e provare gli ipotizzati benefici indiretti, connessi al vantaggio complessivo del gruppo, e la loro idoneità a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi dell’operazione compiuta.

Si deve quindi ritenere, in conclusione, che nel corso della propria attività gli amministratori delle società appartenenti a un gruppo debbano porre particolare attenzione nella valutazione delle decisioni aziendali che coinvolgano il gruppo e preoccuparsi in particolare di documentare (per esempio con relazioni tecnico- contabili o stime econometriche) il prevedibile effetto complessivo di tali decisioni.

Gli amministratori delle società devono essere pagati?

Spesso il compenso degli amministratori di società non è deliberato dall’assemblea …

 

Gli amministratori delle società, che spesso operano per anni senza compenso, hanno diritto a essere remunerati per l’attività svolta?

La questione di solito non si pone nel corso del rapporto di amministrazione ma esplode (magari in modo … turbolento, quando i rapporti si sono interrotti bruscamente) quando l’amministratore cessa dalla carica.

Il Codice civile non contiene alcuna norma esplicita sul punto, limitandosi a stabilire (articolo 2364) che il compenso per l’attività amministrativa è fissato dallo statuto della società o deliberato  dall’assemblea.

Cosa succede – quindi – quando lo statuto tace e l’assemblea non provvede?

PIÙ TUTELA PER CHI COMPRA QUOTE SOCIETARIE IN UNA RECENTE SENTENZA DELLA CASSAZIONE.

leaseUna sentenza recente della Cassazione (la numero 16963 del 2014) si è occupata di un fatto purtroppo molto frequente.
Una persona aveva acquistato la quota di una s.r.l. da un soggetto che di tale società era amministratore unico, per un prezzo, non certo modesto, determinato in base al “valore globale” della società desunto dal bilancio: il prezzo avrebbe dovuto essere pagato in via rateale.
Come spesso succede l’accordo non era stato accompagnato da alcuna particolare garanzia sulla consistenza patrimoniale della società (per la verità spesso succede anche che le garanzie consistano in clausole confuse e di difficile applicazione, frutto del “taglia e incolla” di precedenti contratti).
Il bilancio era tuttavia gravemente carente dato che non riportava ingentissimi debiti gravanti sulla società, che dopo un anno dall’acquisto della quota era fallita.

Il coronavirus e i contratti d’impresa

L’epidemia Covid 19 impedisce a molte imprese di svolgere la propria attività. Questo può giustificare, in molti casi, il ritardo nell’adempimento dei contratti o addirittura la sospensione dell’inadempimento.

Per fare chiarezza occorre distinguere, diverse situazioni

La prima situazione è quella dell’impresa che deve, entro un certo termine, effettuare una prestazione o rendere un servizio. In questo caso è evidente che il ritardo (o addirittura l’inadempimento totale) saranno sempre giustificati se il servizio o la prestazione non possono essere completati, per esempio perché riferiti ad attività delle quali è stata imposta la chiusura o perché sono indisponibili per malattia i dipendenti o perchè è impossibile lo svolgimento dell’attività lavorativa (come accade per esempio nei cantieri, in cui è veramente difficile, se non impossibile, rispettare una corretta distanza tra i lavoratori. In proposito segnalo il prezioso contributo del Collegio dei Geometri di Milano, scaricabile a questo link.)

In questa situazione è evidente che fino a che non cesserà l’attuale emergenza (e, credo, anche per un ragionevole periodo di tempo successivo): i) l’impresa che omette forzatamente di effettuare una prestazione (come consegnare un macchinario) o svolgere un servizio (come la manutenzione di una rete informatica) non può considerarsi inadempiente e non è tenuta ad alcun risarcimento; ii) il cliente dell’impresa potrà, però, in futuro rifiutare prestazioni o servizi svolti in un’epoca in cui, ragionevolmente, non ha più necessità.

 

 

La penale nei contratti. Come difendersi?

Se l’inquilino non restituisce l’immobile entro il mese stabilito dovrà pagare 10.000 euro di penale …. L’impresa è tenuta a versare la somma di 100.000,00= euro se non completa il cantiere entro la fine dell’anno ...”.
Nei contratti sono molto frequenti le clausole penali, ossia i patti con i quali si prevede che la parte inadempiente è tenuta a versare all’altra parte una determinata somma di denaro (o comunque a eseguire una prestazione) a titolo di risarcimento del danno e di “punizione” privata.
Quando si firma un contratto spesso non si fa caso alla clausola relativa alla penale: alla prova dei fatti, però, la penale può rivelarsi veramente molto onerosa.
In questo post vediamo come difendersi dalla pretesa del creditore di vedere adempiuto questo tipo di clausola.